
Questo è un guest post realizzato in collaborazione dell'ingegnere informatico Federico Bo, autore di uno dei più autorevoli blog di innovazione digitale presenti in Italia, esperto di tecnologia blockchain, potete leggere i suoi articoli anche su Medium
L’industria musicale è stata la prima, tra quelle del settore entertainment, a venire travolta dall’onda della marea digitale fin dagli anni ’90. La smaterializzazione, con la comparsa dei formati audio digitali come l’mp3, ha reso “liquida” la musica e obsoleti i supporti fisici: il glorioso vinile, la frusciante musicassetta, l’asettico cd. Le canzoni hanno cominciato a fluire nella Rete, andando a riempire gli hard disc degli utenti che scoprivano il fascino dello scambio e del download gratuito (e illegale). I modelli di business delle grandi compagnie discografiche hanno faticato ad adattarsi. Con la comparsa delle prime piattaforme di streaming (legale) si è affermato il sistema basato sul Pay per Play (PPP), dove ad ogni ascolto corrisponde un piccolo guadagno per l’artista. Quanto piccolo? Molto, molto piccolo.
Facciamo due conti. Nel 2017, i ricavi totali del mercato discografico mondiale sono stati, secondo il Global Music Report 2018 dell'IFPI, circa 17 miliardi di dollari. Per la prima volta i ricavi digitali hanno superato la metà di tutte le entrate, a cui lo streaming contribuisce con il 38%.